I nostri ragazzi

Da qualche tempo nel mondo del tifo, soprattutto calcistico, va molto di moda sostenere che si tifa solo per la maglia. Anzi, “si tifa la maglia”, rendendo miracolosamente transitivo il verbo “tifare”. Qui la pensiamo un po’ diversamente, visto che qualcuno quelle maglie (calottine nel nostro caso) le dovrà pur indossare per dar loro vita. E ai nostri giocatori ci affezioniamo. Magari non a tutti nello stesso modo, ma di molti conserviamo ricordi particolari. La scorsa estate ha visto una delle più imponenti (e tristi) diaspore mai registrate nel mondo della pallanuoto, lo scioglimento de facto di quella Pro Recco “europea” che aveva appena portato a termine la stagione più impressionante della storia biancoceleste, non solo per i trofei vinti ma per il modo. L’intera legione straniera, ad eccezione di Madaras, lasciava Recco, uno solo restava in Italia (Molina), due sceglievano il ritiro (Benedek e Kásás), gli altri a cercare altrove un ingaggio all’altezza della propria classe e della propria fama.

Un terzetto non da poco (Filipović, Burić, Zloković) accettava le proposte del nome nuovo della pallanuoto serba, il Radnički Kragujevac nel quale ritrovavano un altro ex di spicco come Vanja Udovičić (e ad essere pignoli ci sarebbe pure Andy Stevens, il portierino statunitense che per metà stagione lo scorso annlogo Radnickio si allenò con la Pro Recco). Ora, succede che una squadra con simili giocatori riesca a raggiungere il suo obiettivo minimo dichiarato, la finale di Euro Cup, e che ad affrontarla ci sia una squadra italiana, la Florentia dove guarda caso gioca Willy Molina (e col buon vecchio Leo Sottani in panchina). Insomma, per un giorno alcuni dei nostri ragazzi saranno a due ore da qui per una partita. Possiamo forse non esserci?

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È mercoledì pomeriggio, in quattro salgono in auto con direzione Firenze. Hanno passato la domenica mattina in un garage a scrivere striscioni personalizzati, e indossano le magliette d’ordinanza come se fosse la Pro Recco a giocare, come a ricercare l’aria di quell’ Europa che la rivoluzione della scorsa estate li costringe a guardare dalla finestra. Piove per tutto il tragitto, sembra diventata un’abitudine quella delle trasferte bagnate, ma il viaggio non ne risente: alle 18 l’auto parcheggia davanti alla Nannini, c’è tempo di mangiare qualcosa e prendere un caffé. Dentro al baretto davanti alla piscina, seduto ad un tavolino, la prima faccia conosciuta della serata: Vanja Udovičić, che dissimula la sorpresa con la sua proverbiale faccia  tosta e scambia volentieri due chiacchiere. Ore 19, all’apertura dei cancelli il quartetto fa il suo ingresso in tribuna.

Filip Filipović è un atleta esperto ormai, ha giocato le partite più importanti a cui un pallanuotista possa aspirare e quella di stasera non dovrebbe scuoterlo particolarmente, eppure c’è qualcosa che lo spiazza. Che ci fanno quelli con le maglie della Pro Recco a Firenze stasera? Chi sono? Poi guarda meglio, capisce e parte spedito ad abbracciarli col sorriso più ampio che gli abbiano mai visto in volto. Lui che aveva incontrato due di loro a Recco il giorno prima di tornare in Serbia, e li aveva salutati con uno sguardo che trasmetteva tutto il suo dispiacere per l’addio, è quasi senza parole ora, riesce solo a dire “non potevate fare sorpresa migliore”. Poi “Bura” Burić, che qualche sospetto doveva pur averlo visto che i quattro avevano contattato papà StelioFlorentia per sapere se sarebbe venuto a vedere la partita, memori della trasferta a Oradea, e poi Boris Zloković, quello che parla italiano meglio di tutti (“a Kragujevac c’è la fabbrica della FIAT, ci sono tanti italiani, di sera vado nei locali e sento gente che parla italiano e così mi ricordo”). Willy Molina segue a ruota; la sua Sofia e il piccolo Leonardo sono stati i primi ad essere salutati all’ingresso in piscina, lui lo hanno già incontrato due volte in campionato, ma il piacere anche in questo caso è del tutto particolare.

La tribuna comincia a riempirsi, e i tifosi fiorentini guardano con un misto di sorpresa e sospetto questi tipi che indossano la maglia  di una squadra che non c’entra nulla con la partita, armati di un fascio di bandiere e seduti prstriscioneoprio al loro fianco. Che roba sarà mai? Alle 20.20 il mistero si spiega: le due squadre sfilano per la presentazione, si schierano proprio davanti al pubblico, inizia la lettura delle formazioni. “Numero 2: Damir Burić”, e si alza uno stendardo con un cuore e un altro con scritto “Bura” e il numero 2. Filip e Boris sono uno a fianco all’altro, capiscono che toccherà pure a loro e gli occhi gli si illuminano ancora una volta; i numeri sono cambiati rispetto a quelli che portavano a Recco, ma non importa. “Numero 9: Boris Zloković….numero 10: Filip Filipović….numero 11: Vanja Udovičić”, a turno salgono i due aste coi loro nomi, e poi ancora durante la lettura della formazione della Florentia Filip-Vanja “numero 5: Guillermo Molina” per il quinto e ultimo omaggio. Tutti pronti, si inizia e il primo ad andare a bersaglio è proprio Filipović; pareggia Pagani, ma Bura realizza dai due metri. Sembra un incontro equilibrato, addirittura i padroni di casa si portano sul 3-2, poi arriva una doppietta di Gak e la seconda marcatura personale di Filip, che si gira e punta il dito a dedicare la rete ai suoi quattro amici recchelini. Segnerà poi ancora su rigore, mentre Boris, Vanja e soprattutto Willy restano a secco. Finisce 8-4 per il Radnički, è ora di Willyandare a salutarli ancora. Dritti in mezzo al settore riservato ai tifosi serbi, sorpresi pure loro e persino ammirati a giudicare dagli sguardi e dalle strette di mano che vengono scambiate. La missione è raccogliere le firme dei ragazzi sullo stendardo col cuore, il solito Filip aggiunge un cuoricino al suo autografo. Ancora sorrisi, strette di mano e abbracci, qualcuno promette di tornare a Recco appena possibile. Non c’era la Pro Recco in vasca stasera, ma per quei quattro non fa alcuna differenza. Si torna a casa soddisfatti,  con la piacevole sensazione di aver lasciato un segno nel cuore di chi talvolta veniva accusato di non averne. Grazie ragazzi, a presto.

Cuore

Marina, ovvero la passione premiata

MarinaA Recco da tempo sono in molti ad avere il culo pesante (mi si permetta il francesismo) e trovare insopportabile l’idea di fare quattro chilometri per raggiungere la piscina di Sori. In compenso c’è chi per vedere la propria squadra del cuore stressa la famiglia fino a convincere un paziente papà a salire in macchina e percorrere duecento chilometri (e altrettanti al ritorno, ça va sans dire) in uno di quei sabati liguri in cui solo il calendario ti ricorda che è febbraio e non primavera inoltrata. Marina ha diciassette anni e una passione per la pallanuoto che alla sua età suona insolita per chi non vive in Liguria, Campania o Sicilia. Di certo si fa sentire l’influenza del fratello, che gioca in serie D a Vimercate, ma la ragazza ci mette del suo nonostante dalle sue parti non ci siano formazioni di alto livello. E il suo cuore sportivo inizia a battere per quella squadra che tutti almeno una volta hanno sentito nominare, la Pro Recco. Seguita in tv o via internet fino a quando il richiamo della piscina non diventa irresistibile. Il primo tentativo, andare a Brescia il 12 gennaio, viene vanificato da impegni familiari, prestazione e risultato rendono probabilmente più sopportabile la rinuncia. Ma chi desidera fermamente qualcosa ha sempre un piano B, che nel nostro caso significa Bogliasco: il 16 febbraio non c’è scuola, e a Sori c’è appunto Recco-Bogliasco…papà, mi ci porti, vero?

Viene così il gran giorno. Solo poche ore, ma sufficienti per respirare quell’atmosfera vissuta in precedenza solo una volta a Bergamo per Italia-Grecia. Uno splendido sole invoglia persino a togliersi le scarpe e fare due passi in riva al mare, prima di assaggiare l’immancabile focaccia e poi finalmente accomodarsi in gradinata, fare conoscenza con qualche tifoso, scattare foto da vicino ai suoi beniamini e soprattutto assistere al netto 12-2 con cui Tempesti e compagni si impongono sui malcapitati avversari. Il tutto sotto lo sguardo di papà, soddisfatto dallo spettacolo e dalla contentezza della figlia, e pronto a risalire in auto per ritornare a Vimercate e andare a sostenere il figlio impegnato nella sua partita di campionato. Per loro una gran bella giornata, per chi ogni giorno osserva il mondo della pallanuoto la conferma che il seguito c’è, e non resta che trovare i metodi giusti per trasformarlo in realtà.

Pro Recco 2012: un anno in altalena

quote - Sloboda

Quando ti considerano la squadra più forte del pianeta, le due più logiche conseguenze sono che le tue vittorie non fanno più notizia, mentre anche il più piccolo passo falso diventa titolo da prima pagina. E in questo 2012 che se ne va i titoli in acqua e quelli sui giornali sono stati davvero tanti per la Pro Recco, passata dai trionfi alla polvere e di nuovo alle vittorie.

Gennaio in assenza di partite scorre fra le polemiche legate alla Coppa Italia maschile, che la FIN ha deciso di organizzare facendo le veci della desaparecida Lega Pallanuoto per riempire il lungo vuoto agonistico richiesto dalla preparazione agli Europei di Eindhoven. Le date previste comportano l’assenza di nove giocatori biancocelesti fra italiani e stranieri, il che rende alquanto complicato partecipare alla competizione, addirittura c’è chi parla di rinuncia. Una storia a cavallo fra disorganizzazione e sgarbi, che si risolve con uno spostamento di date che se fosse stato previsto da subito avrebbe evitato discussioni e brutte figure, ma che si ripeterà in occasione della Coppa Italia femminile.

A febbraio la piscina di Sori accoglie i reduci da Eindhoven, che portano tante medaglie e qualche acciacco, e si ricomincia a macinare risultati in tutte le competizioni, a partire dalla Lega Adriatica che nell’ultimo incontro giocato in casa prima della sosta aveva fatto registrare il punteggio record di 21-0 sugli spalatini del POŠK. Si ricomincia con una delle poche partite davvero combattute viste nell’intera stagione: la sfida con gli avversari di sempre, lo Jug Dubrovnik. Finisce 9-8, e visto il meccanismo del torneo ci si può considerare già con un piede nella Final Four di Rijeka. In campionato e in Champions League la marcia prosegue senza il minimo cedimento, espugnando fra l’altro per due volte la Scandone contro Posillipo (4-11) e Acquachiara (7-15), mentre il girone della discordia in Coppa Italia a Catania è dominato con la facilità di un allenamento: un 15-9, un 15-3 e un 25-4 parlano da soli. In campo femminile le ragazze non sono da meno, e continuano a vincere ogni incontro.

Marzo porta il primo trofeo: la Lega Adriatica. Quando nell’estate 2011 fu annunciata la Jadranska Liga 2012 partecipazione della Pro Recco esplosero mille polemiche che perdevano completamente di vista il senso della questione, e il risultato fu il silenzio ufficiale sulla manifestazione: per LEN e Federnuoto, semplicemente, era come se non esistesse. Di certo, se l’obiettivo era quello di avere avversari di buon livello non si può dire che sia stato raggiunto: le impressionanti statistiche finali sono lì a dimostrarlo. Persino la finale, seguita dal solito manipolo di entusiasti che non a caso scrivono sulla loro maglietta “sempre i mæximi” (“sempre gli stessi”), è una passeggiata oltre ogni aspettativa: il Primorje entra in acqua senza credere minimamente alla possibilità di fare risultato e il tabellone alla fine recita 15-4. Il giorno dopo il sito croato Crowaterpolo.com titolerà “dove passa la Pro Recco non cresce più l’erba”.

Aprile invece inizia male per ambedue le squadre, e il teatro è sempre la Coppa Italia. Quella femminile, alla sua prima edizione, viene inserita nell’ennesima lunga sosta di campionato dovuta al torneo di qualificazione olimpica, e a causa di questo costringe Tempestini a pescare a piene mani nel vivaio per poter schierare una formazione completa. Si gioca ad Imperia un girone da 5 squadre che darà due posti per la finale, e il secondo posto arriva in extremis dopo una vittoria, un pareggio e una sconfitta (la prima dell’anno per le ragazze) e per un solo gol in più rispetto alla RN Bologna. Dieci giorni dopo è Final Four, nella vasca amica di Sori, e nelle medesime condizioni di formazione le ragazze perdono dopo due tempi supplementari contro l’Orizzonte Catania, che alla fine si aggiudicherà il trofeo. La finale maschile, diventata in corso d’opera a otto squadre anziché a quattro cancellando i gironi di semifinale, arriva a pochi giorni dal rientro in Italia della Nazionale reduce da una tournée in California. Un infernale viaggio di ritorno (oltre 30 ore) e le fatiche del collegiale lasciano non poche scorie fisiche e mentali nei ragazzi che superano i primi due incontri, ma cedono nella finale contro l’AN Brescia mettendo così fine  ad una striscia di sei titoli consecutivi. Ironia della sorte, le due formazioni biancocelesti incontreranno nuovamente le stesse due avversarie allo stesso punto del campionato, e avranno modo di rifarsi con gli interessi.

GMG Pro ReccoMaggio, dunque. Il mese in cui si assegnano i trofei più importanti, e con le formazioni reccheline in lizza ovunque, pronte ad un en plein micidiale. Si parte subito fortissimo: il 5 a Kirishi (Russia), la Pro Recco in rosa conquista al primo tentativo il trono d’Europa vincendo la Champions Cup contro le greche del Vouliagmeni, esattamente una settimana dopo i maschi le raggiungono conquistando per la settima volta (quinta in dieci anni) la Champions League nella Final Four di Oradea (Romania) contro lo stesso Primorje già surclassato in Lega Adriatica due mesi prima. Passa ancora una settimana e arriva una doppietta per la quale è difficile trovare un precedente negli sport di squadra: sabato 19 le ragazze si laureano Campioni d’Italia a Civitavecchia battendo la Mediterranea Imperia, il giorno dopo a Brescia i ragazzi conquistano il settimo scudetto consecutivoFerla Pro Recco. Due scudetti in due giorni, roba che lascia increduli anche quelli che alle vittorie hanno ormai fatto l’abitudine e che hanno seguito entrambe le partite percorrendo più di 1200 chilometri in pullman. Sembra impossibile che si possa andare oltre, che si possa provare altrettanta gioia per una vittoria.

E invece arriva, il 5 giugno, il fulmine a ciel sereno: Pino Porzio improvvisamente, e senza dare spiegazioni, abbandona gli incarichi di allenatore e amministratore delegato e sparisce praticamente nel nulla. È chiaro a tutti che sta succedendo qualcosa, anche se non si capisce esattamente cosa. O forse non si ha il coraggio di ammetterlo. Già dalla fine di maggio girano incontrollate voci di ridimensionamento, non si parteciperà alla Lega Adriatica, la “legione straniera” verrà ridotta, in molti dicono che Volpi non ne abbia più voglia. È un mese terribile per l’ambiente biancoceleste, dalla sede non filtrano notizie e questo accredita qualsiasi speculazione.

Un tormento che dura fino al 14 luglio, quando uno scarno comunicato annuncia il disimpegno da parte della famiglia Volpi e della Fondazione Social Sport. Il giocattolo si è rotto, mezza Italia esulta (e più di uno, di probabile osservanza tafazziana, nella stessa Recco), si prefigurano gli scenari più incredibili. L’unica cosa che è chiara già da qualche giorno, anche se non se ne conosce la misura, è che a rimetterci maggiormente saranno le ragazze. Ma si tratta di attendere solo qualche giorno: il 18 il nuovo A.D. Barreca annuncia che la Pro Recco non prenderà parte alle competizioni europee nella stagione 2012-2013, il 19 il Consiglio decide la chiusura del settore femminile prendendo la decisione più odiosa di tutta la vicenda. E si comincia a fare la conta di chi resterà.

Agosto ci distrae un po’ con le vicende olimpiche. Vicende con un filo di malinconia pensando a tutti quei giocatori che non vedremo più con la nostra calottina, e nelle quali il solito gruppetto trova il modo di riversare la sua passione per la squadra organizzando gruppi d’ascolto per le partite e imbandierando un noto locale recchelino in occasione della finale. E se la sconfitta degli azzurri li priva di quella gioia che tanto avrebbero voluto provare, trovano il modo di consolarsi armandosi di vernice e andando ad aggiornare il numero degli scudetti sulla gradinata di Punta Sant’Anna. Punta Sant'AnnaDove a fianco del “26” appare anche un “1” in rosa, piccolo gesto di ringraziamento per chi, anche se per un solo anno, ha lasciato il segno fra chi ama questa squadra. Due giorni dopo il rientro a casa dei vicecampioni olimpici porta una ventata di ottimismo con la presentazione “ufficiosa” di Matteo Aicardi e Stefano Luongo, e con l’evidente voglia di non mollare da parte degli altri giocatori. Il nuovo tecnico, già si sapeva, è Riccardo Tempestini, il cui sguardo in quei giorni lascia trasparire una certa preoccupazione per l’eredità che gli tocca. Piano piano si compone il puzzle, l’unico straniero sarà Norbert Madaras, tornerà in squadra Ea Mangiante, fra gli italiani solo Di Costanzo dovrebbe andare via.

Settembre, si riprende il lavoro. Il primo allenamento a pieni ranghi a Sori viene accolto da un lunghissimo striscione che cita John Belushi e dal solito, immancabile bandierone col cuore. Con un’assenza che di lì a poco diverrà definitiva: Alex Giorgetti lascia la Pro Recco e va a giocare in Ungheria nel Debrecen. Ci sono scorie fisiche e mentali da smaltire, nuovi schemi da imparare, soprattutto c’è da dimostrare di non essere dei comprimari ora che non c’è più l’ingombrante ombra delle stelle straniere.

Ottobre, parte il campionato. Facile vittoria contro il Nervi, poi una inaspettata battuta d’arresto contro la Florentia che schiera Willy Molina. Col senno di poi, una sconfitta salutare per cementare un gruppo che si rende conto di non poter vivere di rendita come in passato. E si ricomincia a macinare vittorie, con un po’ di nostalgia per quella Champions League che inizia senza di noi.

Novembre è un mese da operai, con tre vittorie importanti (Acquachiara, Posillipo, Savona) mentre il cantiere progredisce, e porta con sè l’annuncio che almeno una coppa internazionale ce la giocheremo: la Supercoppa Europea contro il Savona, programmata per il 12 dicembre.

Dicembre che, peraltro, si apre con un trofeo che sa di rivincita: la Coppa Italia, che per la prima volta vede due edizioni nello stesso anno, torna nella bacheca biancoceleste con due sonanti vittorie contro Brescia e Savona. E poi la Supercoppa, la partita perfetta: i purtroppo pochi spettatori vedono la squadra che sognavano, forte, autorevole e con un bel gioco. Se la finale di Coppa Italia era stata contornata da aspre polemiche da parte savonese, stavolta gli stessi tifosi biancorossi non possono fare altro che applaudire. Così come applaudiamo noi: bentornata, Pro Recco. Arriva l’anno del Centenario.

Photo credits: 1-Frank Borsarelli/Archivio Pro Recco   2/3/4-Alessandro Arbocò

Scene da un compleanno pt.2 – Swissblitz

Da piccoli, chi più chi meno, i maschietti sono attratti dai treni. Soprattutto se vivono nelle vicinanze di una linea ferroviaria. Ne conosco uno che a 3-4 anni costringeva genitori e parenti vari a portarlo alla stazione per vedere transitare convogli di ogni genere. Poi crescendo c’è chi se li dimentica, chi è abbastanza fortunato da avere spazio, costanza e soprattutto soldi sufficienti per darsi al modellismo, e chi come quel bimbo che conosco io che di treni e stazioni farebbe la sua dimora. E a quel bimbo ci sono voluti 43 anni per scoprire che il compleanno si poteva festeggiare in maniera ferroviaria, se mi si passa il termine.

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Racconti dal gelo

L’idea della trasferta in terra russa era già stata lanciata lo scorso anno, e non se ne fece nulla. Stavolta la proposta era più seria e sensata, il mio umore forse meglio disposto, fatto sta che mi sono unito alla trentina di entusiasti che hanno deciso di sfidare il freddo inverno del Tatarstan per seguire la squadra. Ed ecco com’è andata.

Sabato 13 febbraio

TabelloneLa scritta “Kazan” sul derelitto tabellone partenze del Cristoforo Colombo fa un certo effetto. Effetto ancora più strano nel vedere sette banchi di check-in aperti per un volo con una sessantina di passeggeri, quando spesso ti ritrovi con due banchi per centocinquanta. Sarà per il nome della Pro Recco o, come suggerisce una voce velenosa, perché all’aeroporto di Genova non hanno nulla da fare in quell’orario? Sia come sia, apprezziamo e procediamo all’imbarco su un anonimo aeromobile completamente bianco che non posso fare a meno di riconoscere come un MD-82 di provenienza Alitalia. Lo spirito da pullman fa ovviamente saltare la preassegnazione dei posti, nel cambio ci guadagno visto che mi aggiudico una comoda uscita di emergenza. In realtà si sta comodi comunque, visto che i posti a disposizione sono più del doppio dei passeggeri a bordo. Il tempo di notare anche dall’alto lo sfacelo del campo di Marassi e le nuvole ci inghiottono, lasciandoci solo qualche sprazzo sulla Pianura Padana per poi nasconderci del tutto il panorama una volta giunti sulla costa croata. Rivedremo qualcosa solo a pochi minuti dall’atterraggio, dopo quattro ore di chiacchiere, scherzi, conferenze stampa, confezioni di focaccia e altre amenità.

La pista di Kazan dà la sensazione di atterrare nel nulla, una interminabile striscia di cemento in un paesaggio completamente bianco ai cui lati sono parcheggiati vecchi Tupolev e Antonov in disarmo. La piccola sala della dogana è solo la prima delle tante cose che sembrano messe lì apposta a ricordare che l’URSS è una storia troppo recente per non lasciare evidenti tracce di sé, assieme alle procedure di controllo dei passaporti; sul gabbiotto di controllo spicca un cartello giallo, uno dei pochi a riportare una approssimativa traduzione in inglese, che ricorda come tentare di offrire soldi al personale addetto ai controlli sia un reato. Capiamo fin da subito che comunicare sarà un’impresa dai risvolti fantozziani, come ad esempio quando cercheremo di farci spiegare da una bionda e sorridente hostess perché mai ci abbiano portato (su un autobus dei tempi di Breznev addobbato internamente con delle incredibili e coloratissime tendine) davanti ad un hotel che non è quello che ci era stato comunicato. Per fortuna hanno ragione loro. Finora abbiamo avuto solo un timido assaggio di cosa siano le temperature esterne, tempo di prendere possesso delle camere e sfideremo l’inverno russo.

Kazan notturnaCuriosamente, da nessuna parte si vedono le insegne luminose coi termometri che tanto diffuse sono qui da noi. Sarà che non hanno bisogno che gli si ricordi di quanto fa freddo, già ci pensano i canali televisivi locali che riportano in sovraimpressione ora e temperatura: alle 18.45 il bollettino dice -16°, e obiettivamente poteva andare molto peggio. Le strade sono libere da neve e ghiaccio, i marciapiedi un po’ meno: ai lati delle strade si trovano ammucchiate lastre ghiacciate e cumuli bianchi alti un paio di metri. Viene da pensare a quale terribile pantano possano essere queste zone in primavera, quando tutto ciò tornerà ad essere acqua. Per fortuna non c’è vento, ma stare fermi è comunque una mossa pericolosissima. Davanti all’inevitabile McDonald’s noto a terra un bicchiere rovesciato: la cola che conteneva è già perfettamente ghiacciata, e ad occhio non dev’essere lì da molto tempo. In giro pochissima gente, per essere il centro di una città da più di un milione di abitanti, e un parco auto che affianca allegramente SUV dell’ultima generazione e vecchie ZAZ tanto simili alle nostre Fiat 124; a proposito di auto e strade, la segnaletica orizzontale pare opera del tutto ignota da queste parti, soprattutto le strisce pedonali.  Dei pochi esseri umani incontrati colpisce l’abilità delle ragazze nel muoversi agilmente su vertiginosi tacchi a spillo abbinati a minigonne che fanno venire freddo solo a guardarle. La scelta del ristorante ci porterà al gran bazar dell’incomprensione (o del tentativo di fregare il cliente, questione di punti di vista) Kazan - ristorante e ad un menu “tipico” di una tristezza totale pur nelle sue chiare influenze turche (ma in Turchia avevo mangiato decisamente meglio); degni di nota l’abbigliamento del portiere, in stile Armata Rossa, e il vassoio finale con l’offerta di chewing gum Wrigley’s alla menta che mi hanno riportato indietro di almeno 30 anni. Al rientro in albergo i più tecnologici non si fanno sfuggire il wi-fi gratuito, qualcuno si spinge addirittura a cercare sul web lo streaming di Sampdoria-Fiorentina, in generale ci si gode la temperatura (gli interni sono tutti ben più che riscaldati) fra vodka, discussioni su Cassano e pronostici sui quarti di finale, un tipico Bar Sport degno di Benni trasferito nella lobby del Kazan Grand Hotel.

Domenica 14 febbraio

Con tutta la pioggia che ci ha accompagnato lungo gli ultimi mesi,Kazan - Baumana Ulitsa svegliarsi col sole mette di buon umore. La mattinata è libera da qualsiasi impegno, la città offre un sito sotto tutela UNESCO, e non si fanno quattromila chilometri per stare in albergo. Lungo la Baumana, salotto pedonale della città, c’è ancora meno gente di ieri sera, solo le bancarelle di souvenir con le immancabili sciarpe della squadra di calcio locale (ma pure dell’Inter che è venuta da queste parti qualche mese fa), diversi cani randagi alquanto infreddoliti e parecchi piccioni che non mi sarei aspettato di trovare qui. Avevo già notato ieri sera la diffusione sonora: lungo tutta la via un sistema di altoparlanti spara musica in continuazione, hits dell’ultimo momento e curiose cover locali di brani anche italiani. La via è stata il fulcro dei lavori di restauro compiuti per le celebrazioni del millesimo anniversario dalla fondazione della città nel 2005, ma basta allungare lo sguardo nelle traverse per trovare case sventrate o abbandonate, addirittura un palazzo bruciato, dove l’acqua usata per spegnere le fiamme si è ghiacciata all’istante donandogli un aspetto spettrale.

I negozi alternano marchi noti e globalizzati a botteghe difficili da interpretare, curioso il caso di un grande locale  le cui decorazioni fanno pensare ad un fast food o ad una gelateria e guardando dentro si rivela essere una gioielleria. In fondo alla via la vista si apre sulla Kazanka e sulla spianata che ospita lo stadio del Rubin, mentre alla sinistra appare, annunciato in distanza dalle guglie della moschea, il Cremlino. Nei vialetti la neve abbonda e il vento si incanala gelido, le batterie di fotocamere e telefoni mostrano tutta la loro sofferenza, per scaldarci entriamo a visitare la Cattedrale dell’Annunciazione, dove è in corso un’interminabile funzione ortodossa. C’è chi fa riprese nonostante il divieto e chi accende una candelina votiva che non si sa mai. Per par condicio religiosa (e per l’effettiva bellezza del monumento, ricostruito in tempi recenti sulla base di quello distrutto da Ivan il Terribile) entriamo a visitare anche la Moschea, previo obolo di ben 3 rubli (7 centesimi circa) per i copriscarpe (con queste temperature e i Kazan - moscheapavimenti in marmo girare senza scarpe potrebbe essere drammatico), tali e quali a quelli usati in piscina. In realtà la moschea la si può solo vedere da un’apposita balconata, l’accesso all’area sacra non è consentito ai turisti. La Torre di Syuyumbike ci limitiamo ad osservarla da fuori, mentre qualcuno si spinge fino alle rive gelate della Kazanka dove si pesca col vecchio sistema degli eschimesi: buco nel ghiaccio e lenza calata. Intanto si avvicina l’ora del pranzo, e la città comincia a mostrarsi più viva, il passeggio domenicale lungo la Baumana è in costante aumento. Niente ristoranti in stile, meglio una sorta di tavola calda dove tra spiedini, sivas, doner kebab e qualcosa che definiscono pizza si passa un’oretta a scaldarsi e ridere. L’idea della partita pare un contorno, come se non ci fosse nulla da temere dagli avversari di oggi.

Attorno alle 16 è ancora il pullman con le tendine esilaranti ad attenderci per andare in piscina. Da buoni italiani pare che la preoccupazione principale sia quella di dover lasciare i bagagli sul pullman per qualche ora, scena già vista in analoghe occasioni. Kazan - piscina OrgsintezLa piscina Orgsintez è tipicamente sovietica nelle linee e nell’aspetto interno, con quell’acqua resa verdastra dai neon che ricorda la vasca di Volgograd, e stabilisce il record mondiale di sbalzo termico: fuori -18°, dentro +29°. Anche la tribuna, nonostante i seggiolini colorati, è molto vecchio stile, con la prima fila un paio di metri abbondanti sopra il piano vasca (e un bordo vasca largo meno di un metro sul lato opposto); un’occhiata all’unico manifesto affisso all’ingresso ci conferma  il sospetto che le magliette realizzate per la trasferta con la scritta in cirillico non avessero un’ortografia proprio corretta. Lasciate giacche e cappotti al guardaroba gratuito (ecco una cosa intelligente), ci incamminiamo verso il settore a noi riservato lungo una scalinata sulla quale si affacciano gli spogliatoi per il pubblico, con porte spalancate e gente che allegramente si cambia. La posizione è stile Brescia, estremità della gradinata oltre la linea di fondo, anche se  il nostro “assistente” locale si muove a compassione e ci fa spostare di qualche metro verso il centro. Il tifo di casa è appannaggio di uno sparuto gruppetto di quindicenni dotati di un tamburo, trombette e cartelloni scritti a pennarello; poco prima dell’inizio della partita uno di questi ha la bella pensata di dare fuoco ad una trombetta come fosse una torcia, qualcosa di acceso cade a bordo vasca, dopo qualche minuto arriva un energumeno in divisa che se li porta via tutti quanti per controllo e ramanzina al termine della quale meno della metà sarà autorizzata a tornare in tribuna. Chissà se da noi usassero gli stessi metodi…

Il cerimoniale pare ignorare bellamente i presunti dettami della LEN: niente inno ufficiale all’ingresso delle squadre (che in realtà si spostano solamente, visto che i controlli arbitrali sono stati fatti direttamente a bordo vasca senza rientrare negli spogliatoi), tabellone senza i nomi dei giocatori, speaker che parla esclusivamente in russo e storpia in maniera creativa i nomi dei nostri, compresi gli slavi (e quando li pronuncia come si deve si corregge subito). Il pubblico è folto ma non straripante, ad occhio meno di 800 persone, il nostro gruppetto si fa sentire spesso e volentieri. Kazan - tribuna In vasca i ragazzi apprezzano e ricambiano con tre reti in fila, da video didattico quella di Udovicic (che prima del via ha caricato i suoi compagni uno ad uno con una grinta degna di una finale olimpica). I russi provano a farsi sotto, ma vengono tenuti a debita distanza da una squadra che dimostra tutta la sua superiorità, in tribuna i commenti puntano più sui fischi di Kiszelly, che chi era a Rijeka non può certo aver dimenticato. Fra i padroni di casa ci sono due vecchie conoscenze quali Dejan Savic (due stagioni da noi e tatuaggi sempre più estesi) e Marat Zakirov, che alla fine si complimenterà con noi raccomandandoci di salutare Chiavari e Camogli (la risposta immediata: “Chiavari sì, quegli altri anche no”), si danno da fare ma il distacco non si colma, il terzo tempo segna un umiliante parziale di 6 a 0 che chiude ogni discussione sull’esito della gara. Alla fine grandi applausi, strette di mano e complimenti, ci si riveste per tornare al gelo in direzione aeroporto.

A giudicare dal movimento, si direbbe che l’aeroporto sia rimasto aperto esclusivamente per noi. Se ieri mattina a Genova c’era l’imbarazzo della scelta fra i banchi di accettazione, qui è aperto un solo banco al quale si forma una coda tipicamente italiana, ovvero mucchio selvaggio. Carte di imbarco compilate a mano e con fantasiose variazioni nella grafia dei nomi, controlli di sicurezza in stile “vabbè, giusto perché bisogna farli”, duty free sprangato e al bar una sola cameriera che con lentezza tendente allo scazzo smaltisce la coda di tutti quelli che hanno ancora dei rubli da spendere. Il lato positivo di questa situazione è che visto che siamo tutti lì e la torre di controllo non ha nulla in contrario si può decollare con notevole anticipo, previa abbondante spruzzata di antigelo sulle ali che renderà il mio finestrino molto simile a quelli dei treni che prendo ogni mattina, e con l’apoteosi comica della giornata: mai vista una presentazione delle procedure di sicurezza così degna di Zelig, al termine applausi e richieste di autografi e varie altre cose alla hostess protagonista. Rotta sull’Italia, con molta meno adrenalina rispetto al volo di andata e il desiderio di arrivare il prima possibile, ingannando il tempo con congetture e pronostici su quale potrà essere la meta dei quarti di finale (e taccio sulle espressioni di chi, memore del brodino della sera precedente, si ritrova il pollo nel vassoio della cena). Come all’andata il mare di nuvole ci restituisce la visuale solo sopra a Venezia, non facciamo nemmeno a tempo ad ammirarla che ci ritroviamo in fase di atterraggio. Genova dall’alto è il solito interminabile presepe, il vento come da tradizione non manca di sballonzolarci un po’ prima di toccare terra, i due doganieri di servizio mostrano la stessa voglia di tornarsene a casa che avevano le hostess russe (che però al momento di imbarcarci ci hanno fatto ciao ciao con la manina), i due pullman ci attendono coi motori accesi. E passata da poco la mezzanotte quando arriviamo a Recco, nemmeno tanto stanchi ma sicuramente molto soddisfatti.

Ghiaccio

Piccolo diario

E’ passata una settimana, ormai. Sette giorni fa a quest’ora due pullman solcavano la A4, carichi di speranze e preoccupazioni, ottimismo e mugugni. In una settimana abbiamo assistito a trionfi, cadute nella polvere, rivincite annunciate, colpi di scena e tante parole, spesso un po’ fuori luogo. Ormai sapete tutti com’è andata, di mio aggiungo solo qualche pensiero legato ai momenti di questi giorni.

Il viaggio

A credere ai segni, era già tutto scritto lì. Il viaggio verso Rijeka è stato una cosa modello Armata Brancaleone: pullman in ritardo, caselli sbagliati, ristoranti fantasma, radiatori in ebollizione, alberghi in overbooking, orari discordanti, abbastanza per convincere i superstiziosi che era meglio tornarsene a casa. Il viaggio di ritorno, nonostante alcuni momenti di stupidera generale, si è lentamente trascinato nel caldo sahariano della Pianura Padana fra umori plumbei e aria condizionata rotta, acuendo insopportabilmente il peso di quanto patito la sera prima. L’arrivo a Recco è parso ai più una cosa da baciare il suolo per la felicità….

Kantrida

Commento unanime: avercene, impianti del genere. Il complesso fiumano ha affascinato tutti per dimensioni, organizzazione, ambiente, posizione. Peccato solo che per garantire a tutti pari condizioni si sia scelto di giocare col tetto chiuso, creando un microclima degno di una foresta subtropicale.

I tifosi

Tanti, colorati, rumorosi, mediamente sportivi (con l’eccezione, un po’ inattesa, dei montenegrini). Ad un italiano fa uno strano effetto vedere i tifosi del Mladost sostenere lo Jug e viceversa, da noi vige sempre il vecchio motto “”se quelli là giocano contro una squadra di vermi mi ungo tutto e tifo per i vermi””. Di certo per noi si è creato un ambiente sportivamente ostile, complice la stampa locale che venerdì titolava “”Lo Jug contro 500 milioni di euro”” aumentando quel senso di “”soli contro tutti”” che tanta (tragica) parte ha avuto nella storia degli Slavi del Sud. Però non sono mancati i reciproci complimenti, gli scambi di maglie e sciarpe, addirittura sabato un accanito tifoso dello Jug completamente vestito (calottina compresa) dei colori della sua squadra alla fine della “”sua”” finalina ha indossato la maglia bianca e celeste ed è rimasto a tifare con noi. Davvero notevole. Meno degni di nota invece le offese e gli insulti subiti durante e dopo l’incontro da parte dei sostenitori del Primorac, quelli che meno di tutti hanno mostrato di comprendere l’atmosfera che si era creata.

Venerdì, la semifinale

In occasione della partita di Sori scrivevo “”Fra Pro Recco e Jug Dubrovnik non ci possono essere partite scontate, tranquille, senza patemi. La regola parla piuttosto di incontri tirati fino all’ultimo, scarti finali di una sola rete, nessuno disposto a mollare di un solo centimetro da una parte e dall’altra.”” Con questa convinzione, e un sottile senso di timore, ci siamo preparati ad assistere alla semifinale che più di uno ha pensato essere una scelta pilotata per evitare la solita finale degli ultimi tre anni. Mai, nel mio ingenuo ottimismo, mi sarei aspettato di vedere la Pro Recco stendere lo Jug in modo così perentorio, giocando la Partita Perfetta. Tanto da evitare ogni commento in proposito fino alla sirena finale, memore dei tre gol di vantaggio del Montjuic e della sangria rimessa precipitosamente in fresco. Più di tutto, colpiva la metamorfosi del tifo croato, da assordante entusiasmo a silente incredulità. In acqua una dimostrazione di superiorità ai limiti dell’umiliante, Tempesti insuperabile, Calcaterra devastante autore di tre perle da cineteca, la difesa che fa impazzire i ragusani incapaci di trovare un varco. A fine partita pensavo a voce alta che ci è voluto un anno intero di partite giocate spesso col minimo sforzo per arrivare a vedere cosa questa squadra è davvero in grado di fare, ma lo avevamo visto nella serata giusta. Senza avvertire il campanellino che tentava di smorzare gli entusiasmi….

Sabato, la finale

Quel campanellino non lo ascoltava proprio nessuno. Il Primorac visto la sera prima nella semifinale contro il Mladost non pareva davvero squadra in grado di impensierire la Pro Recco vista in acqua subito prima, il pronostico standard era “”se lo Jug lo abbiamo asfaltato, a questi gli dipingiamo anche le striscie dei parcheggi””. Poche isolate Cassandre non riuscivano nemmeno a terminare i loro inviti alla prudenza, cancellati da un pericoloso quanto motivato entusiasmo. E così all’arrivo a Kantrida le facce sono molto meno tese del pomeriggio precedente, i sorrisi a trentadue denti si sprecano, si pensa già a dove andare a festeggiare. Sono pochi quelli che premettono un prudente “”comunque vada a finire”” ai loro pensieri su ciò che sta per andare in scena. Nella finale di consolazione, come la chiamavano una volta, Jug e Mladost recitano un’altra replica del duello che già le contrappone nella finale del campionato croato. Da quando esiste la Final Four non era mai successo che nessuna squadra del paese ospitante non vincesse, e nemmeno andasse in finale; per un popolo orgoglioso come quello croato è indubbiamente una sconfitta su tutta la linea. Però onorano l’incontro (a parte lo Jug che schiera il secondo portiere), e il pubblico partecipa fino in fondo. Bello, davvero. Il settore B, quello occupato da noi, è ancora mezzo vuoto, molti preferiscono restare fuori a bere qualcosa al fresco e snobbano una partita che sembra il semplice prologo dell’unica cosa per la quale si sono sciroppati seicentocinquanta chilometri. L’ora si avvicina, e i più attenti avvertono qualcosa di strano nell’aria, come gli animali sentono i terremoti. C’è qualcosa nelle facce dei trionfatori annunciati che non convince del tutto, e basta il primo minuto di gara a far suonare più di un allarme. Il Primorac sa di giocarsi la gara della vita, e sapendosi battuto sulla tecnica la imposta tutta sul corpo a corpo. Gli arbitri lo consentono, e gli Invincibili si scoprono incapaci di reagire, incapaci di trovare alternative, incapaci di trovare la breccia nel fortino. E se la difesa funziona, l’attacco ansima, il gioco sul centro è impraticabile, la palla circola per vie esterne spesso troppo lontane dalla porta, le linee di tiro sembrano irrimediabilmente ostruite. Quando il vantaggio dei montenegrini giunge al 6-3 sembra incredibilmente finita, mani nei capelli, occhi sbarrati, la voce che non esce più, nervi che saltano, insulti e recriminazioni. Poi va in scena il remake di Barcellona, tre reti di svantaggio annullate in pochi minuti e partita riaperta. Letale iniezione di fiducia per i cuori di chi sta in tribuna e pensa che gli altri accuseranno il colpo: ancora una rete a testa e la sirena annuncia, come un anno fa, i tempi supplementari. Una sola rete, troppi errori, la barriera difensiva che non si riapre più, anche l’ultimo disperato tentativo in stile basket si perde nell’acqua che ribolle. I Campioni abdicano, il giovane Montenegro completa la scalata ai titoli continentali iniziata lo scorso anno a Malaga. Incredulità, silenzio, lacrime…tutti i piccoli e grandi problemi di questi due giorni vengono ingigantiti da uno schiaffo in pieno volto che nessuno avrebbe mai immaginato.

Mercoledì, la consolazione

Definire “consolazione” uno scudetto può sembrare irrispettoso, e probabilmente lo è. Ma è innegabile che questo quarto titolo consecutivo fosse considerato una formalità fin da ottobre, e che solo un pareggio ha impedito che fosse conquistato vincendo tutte le partite disputate. Soprattutto, è evidente nei visi e nelle parole di chi si assiepa sulla vecchia gradinata che la sconfitta di sabato è lungi dall’essere metabolizzata e messa da parte. C’è partita solo per un paio di tempi, poi il Posillipo si fa da parte lasciando la scena ad un notevole Tommy Marcz (quattro reti) e ad un Angelini la cui gestualità tradisce evidenti sassolini nelle scarpe. Il gran bagno finale sembra più un rito che un festeggiamento, siamo in molti ad avere un sorriso un po’ stretto sulle labbra e poca voglia di celebrare il ventitreesimo tricolore. Non fa più notizia invece l’assenza del presidente Barelli, che non ricordo di aver mai visto a premiare la Pro Recco a differenza di quanto fatto per altre squadre, e del resto la FIN già si era distinta per la sua totale assenza a Rijeka (l’unico suo rappresentante era lì per altri scopi, e comunque non una figura di primissimo livello nonostante il nome). Da molto penso che la pallanuoto dovrebbe trovare la forza di staccarsi dalla FIN e creare una federazione autonoma, ma di questi tempi sembra già tanto che si trovi la forza di giocare…

3 dicembre

E’ una giornata di sole, questo 3 dicembre. Freddo, come si conviene alla stagione, ma nessuno ci fa caso. Bastano l’ entusiasmo e l’ attesa a scaldare, a spingere. Una settimana intera passata a tagliare, cucire, scrivere, pitturare, perché Albaro possa essere completamente colorata e imbandierata stasera, come si conviene ad una finale europea. Sabato scorso in Olanda la squadra ha contenuto i danni perdendo 10-8, ci vogliono tre gol di scarto per riportare a Recco quella coppa vinta una volta e sfuggita tante altre. Si può fare, canta la PFM. Si può fare, lo sai, lo sanno quelli che sono partiti in auto per Veenendal sfidando nebbia e gelo pur di esserci e che oggi girano per Recco in auto ascoltando la registrazione della radiocronaca ed esultando ad ogni gol come fossero ancora in piscina. Recco è tappezzata da giorni di manifesti con i volti dei giocatori, anche un paio di grandi striscioni pubblicitari sulle vie principali, nessuno può dire di non sapere cosa sta per succedere. E’ uno di quei giorni in cui tutto è concesso, anche riprendere la vecchia usanza del corteo di auto: alle 17 davanti al Bar Orchidea c’è il finimondo, macchine ferme in mezzo alla strada, gente che cerca disperatamente un passaggio, trombe e campanacci, bandiere di ogni foggia. Sembra di vedere, al contrario, il ritorno da Trieste di quei ragazzini terribili che nel 1959 portavano a casa il primo scudetto. Quando si parte il frastuono dei clacson sale altissimo, al pari dell’ adrenalina, ti domandi come potrà tutta questa gente entrare in piscina. Tra un po’ lo capirai.

Alle 18.30 il catino di Albaro è già ai limiti della capienza. E’ il colmo che tu sia in giro dalle due del pomeriggio e finisca per arrivare giusto in tempo per raggiungere la ringhiera, con quei due borsoni pieni di striscioni che uno zelante poliziotto pretenderebbe di controllare. La ventina scarsa di tifosi olandesi si è piazzata nel tratto di tribuna sotto la terrazza, e guarda con occhio intimorito la folla stipata nei rettilinei. In fondo a sinistra ci sei tu, ci sono i tifosi più giovani, che non sanno darsi un nome ma ci mettono un entusiasmo ai limiti dell’ incoscienza. In fondo a destra, armati di qualsiasi cosa possa fare rumore, il muro umano dei Panthers, quelli più grandi, quelli che guardi con ammirazione e un pizzico di invidia. Questa sera sarà forse l’ ultima occasione di vederli presenti al completo, lo sentono pure loro e sono decisi a far sì che sia una grande uscita di scena. Entra per il riscaldamento Alberani, e Albaro esplode come se si fosse già vinto. Anche per lui è, o dovrebbe essere, l’ ultima partita: ha annunciato il ritiro, gli anni cominciano a farsi sentire per l’ultimo dei Grandi ancora in formazione.

Albaro 03-12-1983

Foto di Luciano Berlingeri

La sirena introdotta non si sa come da Gaetano fa tremare le vetrate, un primo timido tentativo di “Recco, Recco” diventa un boato assordante. Quanti sono? Tremila? Quattromila? Di più? Cominciano le prime inevitabili voci, ci sarebbe gente ferma sugli scaloni di ingresso, addirittura chi dice che la Polizia avrebbe bloccato gli ingressi, sembra il gol di Zoff di Fantozzi. Da lì dentro non avrai modo di capire cosa ci sia di vero, muoversi è impossibile, si sta letteralmente l’ uno sull’ altro. E intanto entrano gli altri giocatori, ci sono cori per tutti, più che l’attesa della partita sembra un sabba a cui non è consentito sottrarsi. I fischi all’ ingresso degli olandesi sono una breve formalità, poi si ricomincia ad osannare i ragazzi con l’ accappatoio curiosamente decorato in nero e arancio, potere dello sponsor. L’ ora si avvicina.

Le note del Tema di Eric di Vangelis risuonano nell’ impianto. E’ la sigla usata anche per i concentramenti e per la semifinale, ormai è familiare a tutti e distribuisce la sua parte di brividi. Entrano le squadre a bordo vasca e anche chi ha finora cercato di mantenere un aplomb allenta i freni inibitori e si unisce ai cori. Pro Recco contro AZC Alphen, in palio la Coppa dei Campioni. Ora non ci si può più tirare indietro, si stringono i denti e si inizia. Subito avanti, ma senza mai quel break che potrebbe metterti al sicuro, sempre in bilico su quei 2 gol di vantaggio che pareggiano i conti dell’ andata. E’ una partita tirata, tesa, con tanti sbagli da una parte e dall’ altra, e quando finalmente credi di avercela fatta un tiro maligno porta il punteggio sul 7-5. Non basta, non basta, senti il mondo che ti crolla addosso, la delusione che si fa strada. Ma la pallanuoto è sport che si gioca fino all’ ultimo secondo, dovresti saperlo. A volte sul caso, a volte sulla furbizia, a volte su entrambi. Mancano 15 secondi alla fine quando un tiro disperato si perde sul fondo. Scatta il trasferimento sull’ altro fronte, ma c’è qualcosa che non torna. Baldineti nuota furiosamente verso l’ angolo mentre Galli improvvisamente riparte verso la porta olandese. Sono gli unici ad essersi accorti che gli arbitri hanno assegnato la rimessa a noi, e d’ improvviso è come se fosse un rigore: Marco Galli solo davanti al gigantesco portiere olandese, una, due, tre finte, il tiro che viene respinto e un “Nooooooo” come un tuono dagli spalti, ma il ricciolo di Civitavecchia riesce a riprendere la palla, si avvicina ancora, altre due finte, il braccio sinistro malignamente teso in avanti e la palla che entra in porta.

E’ come se un vulcano fosse improvvisamente emerso dalla vasca, l’ urlo è il più forte che le tue giovani orecchie abbiano mai sentito, dalla disperazione al trionfo in un attimo, l’ incolumità personale degli spettatori è ormai utopia fra gente che rotola giù dalle vertiginose gradinate del vecchio Stadio del Nuoto genovese, c’è chi urla, chi ride, chi scoppia a piangere, chi resta basito e non riesce a crederci, nel delirio collettivo quasi passa inosservata la veemente protesta del portiere che addirittura esce dall’ acqua e marcia minaccioso verso un arbitro ai limiti del terrorizzato. Per fortuna riescono a ridurlo a più miti consigli e ad indicargli gli spogliatoi per la più ovvia delle espulsioni. Mancano pochi secondi, basta mantenere i nervi saldi e non prendere tiri, mentre lo scorrere del tabellone viene accompagnato dal coro dei presenti che copre persino la sirena. E’ finita, finita come volevi, finita come sognavi, vivi anche tu l’ emozione che papà ti ha raccontato, quella di Milano di vent’ anni prima. Imre e i suoi ragazzi passano sotto di te alzando la Coppa, e la calca è tale che senti improvvisamente la ringhiera cedere, riesci a rialzarti di scatto e la vedi piegata in avanti di una ventina di centimetri. Hai rischiato l’ osso del collo, o forse solo un bagno, ma sei troppo felice per rendertene conto. Ora vuoi solo il corteo verso Recco, e la sclacsonata per tutto il Golfo, incurante del freddo, ebbro di gioia come nemmeno l’ anno prima per Pablito Rossi e Italia-Germania. C’è più gusto a vincere quando sei piccolo…

Albaro 3-12-83

Foto di Luciano Berlingeri

Questo accadeva il 3 dicembre del 1983. Sono passati tanti anni, ma lo ricordo come fosse ieri, e dove non arrivano i ricordi c’è la telecronaca di Giorgio Bubba gelosamente custodita. Perchè sono state tante le vittorie da allora, ma le emozioni di Albaro non hanno eguali. E ancora oggi quando varco la porta a vetri che si apre sulla terrazza per un momento chiudo gli occhi e rivedo quella sera. Indimenticabile.